Tra qualche settimana compirò i miei primi 30 anni di Karate…e chi se ne frega direte in coro. E avete ragione, questo post non è per voi, ma a esclusivo beneficio del sottoscritto, affinché un giorno possa rileggere i miei pensieri e vedere se la mia comprensione dell’arte sarà cambiata, se sarò riuscito a progredire oppure al contrario se mi sarò fermato o perso. Non mi aspetto di certo che siate d’accordo con quanto scriverò e non ho nemmeno la presunzione che possa interessare a qualcuno. Ma se troverete dieci minuti del vostro tempo da dedicare alla lettura di quanto segue, sarete i benvenuti.
Ecco un breve scorcio di quelle poche e semplici lezioni che ho imparato tramite la pratica del Karate: sono state impartite a me, sono le “mie” lezioni e in quanto tali mi appartengono totalmente. Data la mia giovane età marziale, ciò che ho trovato, visto e capito di certo corrisponde solo a un quadro parziale del dipinto nella sua interezza: ma come per le avventure più interessanti, si sa, tutto nasce sempre dal molto piccolo.
La cintura più importante
Senza ombra di dubbio la cintura bianca. Difficile a credersi, ma tutte le volte che ho indossato questa cintura è stata una sorta di benedizione. La cintura bianca identifica il neofita, il principiante, ma il concetto è molto più profondo e denso. Esiste un termine Giapponese che lo esprime al meglio, 初心者 (shoshinsha):
初 / SHO (iniziale)
心 / SHIN (mente)
者 / SHA (persona)
Shoshinsha, la persona dotata di una mente libera da ogni preconcetto e da ogni resistenza riguardo all’arte. La tela bianca, dove ogni opzione e variazione è possibile e plausibile, nulla viene scartato o rifiutato a priori. Nella mente del principiante non esistono schemi precostituiti, tutte le combinazioni sono valide e accettate. Quindi bisogna indossare con grande orgoglio la cintura bianca, perchè ben presto, molto prima di quanto si immagini, diventerà di colori sempre più scuri (che porteranno con sé, ahimè, anche qualche trappola insidiosa).
Ovviamente non è indispensabile indossare fisicamente la cintura bianca per affrontare la pratica con lo spirito del principiante, shoshinsha è prima di tutto uno stato mentale, un tipo di atteggiamento: sopire l’ego, schiacciarlo costantemente al fine di rendere possibile uno studio sincero e proficuo dell’arte.
La cintura più pericolosa
Ci sono cinture che sono più pericolose di altre, ma nessuna è come la cintura blu (e in parte anche la marrone). Essa rappresenta un punto di svolta nel percorso che porta dalla scala di kyu colorati alla fatidica kuro-obi (Shodan). Quando si consegue la cintura blu significa che si è imparato buona parte del curriculum di base della propria scuola, e di riffa o di raffa, s’inizia sapere fare qualcosina. Il maestro ogni tanto ci fa dare un’occhiata alle cinture di grado inferiore come bianche e gialle, durante il saluto iniziale e finale ci si posiziona a metà della fila e si guardano (a volte con autocompiacimento) le cinture bianche, gialle, arancioni e verdi che ci precedono: lo so perfettamente, perchè lo facevo anch’io.
Questa serie di fatti rischia di carezzare pericolosamente il nostro ego (perché tutti abbiamo un ego: più o meno accentuato, più o meno esternato, più o meno scalfibile) in un momento della nostra vita marziale particolarmente delicato. Mi piace pensare alla cintura blu/marrone un po’ come se fosse la nostra adolescenza, se saremo capaci di sopravviverle indenni ci sono buone speranze di raggiungere l’età adulta e diventare un giorno degli uomini e delle donne (dei karateka maturi).
Jutsu e Dō
Mi sono spesso interrogato sul vero significato di jutsu e dō, ho letto tanto sull’argomento ma credo di non aver mai compreso fino in fondo l’essenza di questi “due mondi”. Almeno non fino all’anno scorso. Ma procediamo per gradi.
術 / JUTSU – L’arte
道 / DOU / michi – La via, il percorso
Con estrema semplificazione, si può riassumere il jutsu (da cui sfociano le varie arti correlate come il tode-jutsu, lo iai-jutsu, il ken-jutsu, il jū-jutsu, e via dicendo) come l’insieme delle pratiche marziali che pongono l’accento sulla ricerca dell’efficacia: l’attenzione è tutta rivolta ai dettagli tecnici e alle studio delle meccaniche al solo scopo di “far funzionare” la tecnica “il più efficacemente possibile”.
Da una prospettiva ortogonale, non opposta si badi bene, nasce invece il dō (con le rispettive arti gemelle come il karate-dō, lo iai-dō, il ken-dō, il ju-dō, ecc), ovvero la ricerca di un percorso più “spirituale”, una via che ha come punto focale il miglioramento dell’individuo affinché, col tempo, egli possa essere in armonia con tutti gli altri.
Tutte belle parole, ma vuote se non si comprendono nel profondo. Non so se io le abbia davvero comprese, ma l’anno passato credo di aver fatto un buon balzo in avanti nella comprensione.
A causa di problemi nell’ambito lavorativo e di un dispiacere personale, mi sono ritrovato tutto d’un tratto come immerso in un banco di nebbia fitta, dentro al quale era impossibile districarsi: non c’erano indicazioni luminose né rumorose che segnalassero la direzione. In quel periodo, se qualcuno mi avesse chiesto “chi sei tu?” probabilmente non avrei saputo dare una risposta sensata.
La pratica del jutsu non mi dava alcun sollievo, i suoi benefici si limitavano al solo tempo in cui mi faceva sudare. Finita la doccia era tutto esattamente come prima. Ma, complice una gara di kata (la seconda della mia vita) alla quale decisi di partecipare (NB: sono profondamente contrario alle gare e alle competizioni sportive, ma quella volta tutto nacque per caso e perché ad alcuni ragazzi mancava “il terzo” per poter competere a squadre), il mio allenamento si spostò maggiormente sulla ripetizione delle forme, sia nel dōjō che a casa, sia nel fisico che nella mente. Sembra incredibile, ma allenandomi coi metodi che maggiormente caratterizzano il dō, allenamento dopo allenamento la nebbia si è iniziata a diradare, i benefici duravano molto più a lungo e nel giro di qualche mese quella foschia sparì del tutto. Sia chiaro: non intendo dire che le tensioni al lavoro non mi influenzassero o che il dispiacere fosse passato (anzi), ma quella nebbia era sparita, sapevo di nuovo rispondere alla domanda.
Questa esperienza mi ha portato a maturare le mia definizione personale di jutsu e di dō, al centro della quale c’è l’uomo, inteso come essere umano, con le sue unicità e criticità.
E se l’uomo è il perno attorno al quale ruotano jutsu e dō, allora mi sento di definire il jutsu come l’insieme delle pratiche che studiano il funzionamento della parte esteriore dell’essere umano, la dimensione che si può vedere e misurare. Ad esempio, come funziona una leva articolare, la localizzazione di cavità vulnerabili, le risposte neurologiche ai vari tipi di attacco. Il dō rappresenta invece lo studio della parte interiore dell’essere umano, la conoscenza della sua sfera più intima. Praticare il dō significa sondare la parte non visibile, quella che soltanto noi possiamo esplorare perché nessun altro può accedere ad essa: lo scopo ultimo sarà quello di far affiorare le proprie debolezze, vincerle e conquistare il silenzio, un silenzio diverso da quello che normalmente s’intende, un silenzio di cui noi saremo i signori.
In quest’ottica jutsu e dō sono complementari e non mutuamente esclusivi. Il senso della loro esistenza è solo quello di completare la propria metà duale.
Se dovessi scegliere un kanji che esprima al meglio questo concetto, userei 明 / MEI, che è composto dal radicale 日 / NICHI (sole) e dall’ideogramma 月 / GETSU (luna): messi insieme formano il kanji 明 che ha il significato di “splendente” o “brillante”. Jutsu e dō non andrebbero mai separati, bensì integrati: non osino i maestri dividere ciò che non dovrebbe essere scisso, perché, per parafrasare il postino di Massimo Troisi “il karate non è di chi lo insegna, ma è di chi gli serve”.
Se jutsu e dō fossero luna e sole, allora il kata sarebbe il cielo. Manuale tattico e testo di riferimento per tutte quelle tecniche atte a uccidere e storpiare gli avversari, il kata è al tempo stesso un potente strumento d’introspezione, un mezzo efficacissimo per sondare, scovare e superare i propri limiti e le proprie debolezze. Il kata unisce jutsu e dō in un unico, meraviglioso e insostituibile strumento didattico.
Le tre componenti di ogni tecnica
Cosa rende una tecnica davvero efficace? E’ una delle domande che più mi sono fatto durante la mia crescita marziale. I miei maestri mi hanno sempre aiutato (e mi aiutano tuttora) a migliorare l’aspetto tecnico dei miei tsuki (pugni), dei miei keri (calci), di come ricevere e deviare un attacco, di come muovere il corpo. Ho sempre dato una enorme importanza ai dettagli che potessero aiutarmi ad esprimere la maggiore efficacia possibile. C’erano volte in cui mi sembrava di dare pugni molto potenti, altre volte invece avevo l’impressione di sbagliare tutto. Tante volte sono tornato a casa dopo un allenamento con la consapevolezza di non avere nemmeno spostato il mio avversario, con il sapore amaro di aver tirato il più potente dei mae geri di cui ero capace ma con il risultato di rimbalzare sul cuscino tenuto dal mio partner. Grazie a questo tipo di frustrazioni, col tempo, ho maturato la mia idea di tecnica efficace ed essa non può prescindere da tre elementi fondamentali, alcuni più importanti di altri:
技 / GI / waza – La parte fisica. E’ la parte su cui lavoriamo di più, ma paradossalmente lo ritengo l’ingrediente meno importante. L’aspetto tecnico, lo studio delle meccaniche è il punto di partenza; spendiamo interi anni/decenni a ripetere più e più volte il gesto fisico, lo riaggiustiamo in base alle indicazioni del nostro maestro. Lo perfezioniamo goccia dopo goccia. Credo fermamente che la tecnica non sia mai un grosso problema: con l’aiuto del maestro o di un compagno più esperto saremo sempre in grado di migliorare il gesto, è solo una questione di tempo.
集中 / SHUUCHUU – La presenza mentale, la concentrazione. Non è possibile eseguire una tecnica con efficacia se la nostra mente è concentrata su (o distratta da) altro. Durante la pratica all’interno del dōjō dobbiamo rimanere concentrati su quello che stiamo facendo; pensieri come il lavoro, i compiti scolastici, le delusioni private non devono entrare nella mente del praticante. Questo aspetto è importante, ma non il più importante. Anche in questo caso il maestro o un senpai, se ci vede distratti, ci richiama all’ordine e noi possiamo tornare a concentrarci sull’esercizio che stavamo facendo.
心 / SHIN / kokoro – Il cuore, lo spirito. Lo ritengo in assoluto l’ingrediente più importante e al tempo stesso il più difficile da conquistare. Sono convinto che una tecnica, per essere davvero efficace, debba sì essere espressa con la massima presenza mentale e con le corrette meccaniche corporee, ma senza “il plasma vitale” che la renda viva, si riduce a un mero involucro vuoto che muoviamo meccanicamente. 心 rappresenta proprio quel plasma vitale, il sentimento ardente che deve riempire l’intenzione e lasciarla libera di esplodere. Ogni volta che eseguiamo uno tsuki (o un keri o qualsiasi altra tecnica) noi dobbiamo DESIDERARE di scoccarlo, come se dovessimo esternare la più sfrenata e incontrollabile delle passioni: solo così potrà essere efficace e la tecnica, credetemi, apparirà piena anche a un osservatore esterno. Col duro allenamento e tanto spirito di sacrificio sarà possibile far nascere questo desiderio ardente in maniera del tutto automatica ogni volta che portiamo una qualsiasi tecnica. Attenzione però, per imbrigliare lo SHIN è necessario un percorso del tutto intimo e personale: la grande difficoltà sta nel fatto che, al contrario di GI e SHUUCHUU, nessun maestro o senpai potrà mai aiutarci o correggerci.
La lezione più importante
L’anno scorso alcune persone mi hanno dato un forte dispiacere (e alcune preoccupazioni), perchè forte era la simpatia e il feeling che si erano instaurati, tanté che li consideravo amici. Ma ora questo non ha più molta importanza, perchè se ci si concentra sulle cicatrici diventa impossibile concentrarsi sulla lezione, che è assai più importante per progredire. Al riguardo mi vengono in mente le parole di due grandi maestri, Kinjo Hiroshi e Kase Taiji.
Kinjo Sensei diceva che “Se e quando c’è un problema tra le persone, la colpa è sempre della persona più intelligente. Questa filosofia garantisce che si debba sempre accettare la colpa per qualsiasi problema esistente (anche quando in realtà non è colpa nostra) e cercare la soluzione percorrendo una via di alta umiltà e comprensione. Spesso, una cosa del genere è molto difficile, ma dice molto di più su di noi come persona che sui problemi degli altri. Non c’è vergogna nell’umiltà e nel perdono fintanto che siamo totalmente onesti con noi stessi.”
Kase Sensei invece si esprimeva con queste parole: “Nella pratica del Karate per me viene prima il cuore. Il cuore dev’essere associato al sentimento di umanità e a ciò deve corrispondere libertà: una mente libera. Siamo esseri liberi, dobbiamo avere un cuore grande e una grande umanità. Questi sono due punti importanti per sviluppare un Karate efficace“.
Il karate che esprimevano questi due grandi maestri, dal punto di vista meramente tecnico, era diversissimo, irriconoscibile l’uno dall’altro. Ma entrambi, giunti a piena maturazione, hanno trovato qualcosa di estremamente simile. Qualcosa che, per quanto mi riguarda, è ancora molto lontano dall’essere capito veramente. Se la piena realizzazione di un Budoka consiste anche nel saper “mollare la presa”, ovvero riconoscere ciò che non possiamo cambiare e avere invece il coraggio di cambiare ciò che possiamo, non posso esimermi però dal rileggere i pensieri dei due maestri, prendere atto dei miei tentativi di seguire il loro messaggio e, ahimè, riconoscere gli scarsissimi risultati che ho ottenuto nel provare a ricucire. E’ evidente che il lavoro che devo fare è ancora enorme, ma voglio che un giorno il mio Karate sia davvero efficace per come lo intendeva il maestro Kase (e credetemi, il suo Karate era efficace eccome), quindi con tutta l’umiltà di cui dispongo mi fiondo a indossare la cintura bianca e a impegnarmi al massimo per studiare la lezione più importante: quella che ancora devo imparare.
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